1997 Biennale di Venezia, Marina Abramovic sconcerta, scuote la rassegna e tutto il mondo che le ruota attorno con la sua “Balkan Baroque”, una performance dalla durata di quattro giorni che gli consentirà di aggiudicarsi il Leone d’Oro.
La Abramovic colpisce con un violento schiaffo, un autentico pugno nello stomaco, il mondo occidentale cieco davanti all’orrore della guerra nei Balcani.
Sopra una catasta di ossa bovine sanguinolenti l’artista montenegrino-statunitense passa i quattro giorni a ripulire le ossa dai resti della carne e dalle cartilagini, lo shock emotivo di chi si trova ad osservare è inevitabile, il concetto viene rafforzato, oltre al mucchio d’ossa, dalla stessa artista coperta dal sangue e dall’odore della decomposizione che nei giorni diviene sempre più intenso.
Un gesto forte, estremo che servirà comunque a risvegliare alcune coscienze, solo in seguito anche i media (oltre all’assente politica internazionale) si sono accorti (e noi con loro) dell’orrore che la Abramovic aveva anticipato.
L’arte come risveglio delle coscienze.
Nel 2000 la performance della Abramovic diventa un film, testimonianza “visiva” di una denuncia, dell’orrore di una guerra fratricida e dell’indifferenza di una cultura egocentrica.